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Trieste




Ettore Janulardo

Saba: Scorciatoie dopo Majdaneck


“ … Dieci anni ancora di fascismo, nazismo, razzismo
e si regrediva tutti (vero alla lettera) al cannibalismo”
U. Saba, Scorciatoie e Raccontini, 1946

L’antropologo e psicanalista Pierre Legendre sostiene che l’Occidente è stato colpito nella sua essenza dalla Shoah, ovvero dai colpi inferti dal nazismo al diritto di filiazione. E Paul Virilio sottolinea l’eredità genetica della Seconda guerra mondiale, il mostro a due teste da essa prodotto: Auschwitz e Hiroshima. Riprendendo l’immagine della filiazione, Virilio ricorda che l’attacco mortale alla matrice ebraica della civiltà europea equivale al suicidio delle origini, esiziale sul piano qualitativo oltre che su quello quantitativo.
Al di là della catastrofe, la filosofia si pone come riflessione post-Auschwitz, non-luogo concettuale portato a confrontarsi miseramente con i non-luoghi dell’annullamento. Ove anche le parole hanno il senso della condanna, testimonianza di chi è ancora chiamato ad annullare la propria esistenza, ora in nome del ricordo e dell’appello: il nazismo ha fatto degli ebrei i figli dell’orrore, condannando i sopravvissuti a non parlare o a non parlare che dei campi, resti sottratti all’ “altra riva”, come ricorda Alain Finkielkraut – ad altre esperienze, ad altre storie che avrebbero potuto vivere se non vi fosse stata la deportazione –, o destinati a raggiungere l’altra riva, vincitori ma distrutti, salvati ma sommersi, come nella simbologia della fine di Primo Levi.
Accanto alla metafisica post-Auschwitz si situa la prosa lirica post-Majdaneck di Umberto Saba, che in Scorciatoie e Raccontini – pubblicati tra il marzo e il luglio del 1945 – si confronta anche con l’annullamento, proponendo al lettore luoghi e tempi della morte:

“Dopo Napoleone ogni uomo è un po’ di più, per il solo fatto che Napoleone è esistito. Dopo Maidaneck…
Maidaneck era un piccolo campo di concentramento tedesco: il primo scoperto dagli Alleati. I giornali e le riviste ne riprodussero, a suo tempo, gli orrori superstiti. Buchenwald, Auschwitz ecc. erano allora sconosciuti”.

Sfuggito alla tortura concentrazionaria, ma non alla legislazione fascista e al disperato smarrimento dell’8 settembre, Saba scrive durante gli ultimi mesi di guerra e l’inizio dell’estate ’45 brevi testi, tra la tardiva prosa d’arte e l’aforisma, che pubblica sulla rivista “La Nuova Europa”, prima dell’apparizione in volume, per Mondadori, nel 1946. Divagazioni e “détours” tra arte e letteratura, politica e incontri, contrassegnate da una moltitudine di incisi – parentesi e lineette – nonché da virgolette, maiuscole e puntini di sospensione, quasi a voler ricreare l’effetto di una apparentemente oziosa passeggiata, le Scorciatoie si snodano in cinque piccoli gruppi, numerate da 1 a 165, mentre i Raccontini si meritano l’onore di un titolo specifico per ogni testo. Così l’autore definisce le sue prose:

“Scorciatoie – Sonovie più brevi per andare da un luogo ad un altro. Sono, a volte, difficili; veri sentieri per capre. Possono dare la nostalgia delle strade lunghe, piane, diritte, provinciali”.

I testi dell’edizione mondadoriana sono scritti “sotto l’impressione, estremamente piacevole, della dissoluzione di un incubo”, come postilla l’autore nel 1946. Diverse nel tono sono le Primissime scorciatoie, scritte a Trieste nel 1934-35, in un contesto che portava Saba ad essere, se non “aspro”, almeno molto “inasprito”.
Ma la consapevolezza di uscire da un incubo rende rivelatrici le Scorciatoie del ’45, ove il tema della Shoah punteggia gli aforismi, segnati dalla comune matrice post-Majdaneck. Il “piccolo campo di concentramento” nei pressi di Lublino, più volte citato, assume il valore di emblema della creazione e della riflessione letteraria, dolorosa voce della consapevolezza anti-concentrazionaria. Alla conclusione della prima serie di testi, del febbraio ’45, scrive Saba:

“ … Quanto piacere mi avrebbe dato un giorno questa sua favoletta! Che buon augurio ne avrei tratto per il mio amico e per me! Ma oggi… Ma dopo Maidaneck…”.

Ancora più esplicito, al termine della seconda serie di testi del marzo 1945, l’avvertimento:

“Lettore mio, non t’inganni l’apparenza, a volte paradossale, a volte perfino scherzosa (?) di alcune Scorciatoie. Nascono tutte da dieci e più esperienze di vita, d’arte e di dolore. Sono, oltre il resto, reduci, in qualche modo, da Maidaneck”.

Filo nero dell’Europa post-massacro – in dialettico confronto con “La Nuova Europa” dell’omonima rivista – il lager di Lublino assurge a manifestazione senza riscatto dell’annullamento. Costituito nel 1941, da un’iniziale capacità di circa 30.000 deportati giunge a circa 150.000 detenuti, in gran parte prigionieri di guerra russi. Campo di concentramento e di sterminio, è sito di morte con ogni mezzo: gas, armi da fuoco, impiccagioni, fino al “record” del 3 novembre 1943, in cui sono uccise 18.000 persone; il 22 luglio 1944 vi giungono le prime pattuglie russe, trovandovi poche centinaia di “sopravvissuti”. Nella piana desolata che volge ad est, tra recinzioni di un luogo troppo banale per non distruggere vite, il “piccolo campo” appare solitariamente spettrale, immerso nella finitezza del mattatoio tra forni e ceneri a formar collina, senza aver mai raggiunto l’imponenza e l’emblematica notorietà di Auschwitz, “fabbrica della morte”. Se il “giorno della Memoria” è passaggio dalla storia alla celebrazione, segnata dai timori dei superstiti e dalle parole di Tzvetan Todorov in Memoria del male, tentazione del bene “la storia complica, la commemorazione semplifica ... la prima è sacrilega, la seconda è sacralizzante”, la dissoluzione non può ridursi a una data e a un sito assunti come paradigmatici, ma deve – nel rispetto della pluralità di morti suscitate – moltiplicarsi nelle voci che “riproducono” la fine, sottraendola anche alle interpretazioni del singolo superstite o alla ritualizzazione mediatica. Fuori dalla scena della notorietà, a Majdaneck la distruzione alla periferia della città si fa gorgo silente ove si “scende muti”, rovesciando l’antica centralità dell’ebraismo polacco in buco nero che attraversa poche pagine letterarie, e le voci del ricordo rischiano di sparire dalla memoria.
Saba coglie quest’aspetto in Majdaneck, facendo della prosa lirica la testimonianza concettuale – non personale – della distruzione. Prova di tale disposizione culturale, non chiamata a vivere l’innominabilità dei campi, è una serie di riflessioni sul nazismo. Con un tono apparentemente svagato, il poeta presenta un’interpretazione dei sogni di Hitler, sottolineando il carattere di una psicopatologica guerra parallela a quella condotta sui campi di battaglia:

“A quelli che credono ancora che Adolfo Hitler … abbia almeno amata la Germania, racconto qui qual è stato veramente il suo Sogno.
Ridurre la Germania un mucchio di macerie; e, fra nuvole di gas asfissianti, rimproverando ai tedeschi di averlo – per colpa degli ebrei – tradito, salire EGLI al cielo, in una specie di apoteosi, circondato dal fiore delle più giovani e fedeli S.S.
Questo sogno egli lo ha sognato così profondamente … che si può dire che egli abbia vinta – almeno in parte – la SUA guerra”.

Facendo presagire alcune riflessioni di Hannah Arendt ne Le origini del totalitarismo, Saba ritrova i nodi dell’assimilazione dello straniero:

“Gli ebrei tedeschi amavano la Germania; ma non erano tedeschi. Tanto più i loro pazzi ospiti … avrebbero dovuto tenerli di conto; coltivarli – per così dire – artificialmente. … E forse, se i tedeschi non fossero stati così malati all’inizio da respingere qualunque medico e qualunque medicina – li avrebbero impediti d’impazzire del tutto”.

E schizza ritratti dell’hitlerismo come estrema negazione della condizione umana, con una chiave interpretativa tra lirica e psicanalisi:

“Gli strilli acutissimi dei bimbi in cuna … ricordano, molto da vicino, i: Presto Francia! Presto Polonia! di Adolfo Hitler”.

Fedeli al divagato dissolversi di “un incubo”, le prose di Saba spaziano tra numeri e voci, attraversando riferimenti musicali – Beethoven, Wagner, Verdi – e citazioni letterarie – Petrarca, Leopardi, Svevo, Moravia, tra gli altri – ma dilettandosi anche di puntate polemiche e divertissements:

“ … O arte, o scienza. Ma non filosofia”.
Quasi grottesco elemento di transizione tra il buio dell’hitlerismo e il diletto della scrittura, sono le considerazioni sulla politica italiana e sull’arte dell’intrigo, così inestricabilmente fuse durante gli ultimi anni di guerra:

“A Roma … nessuno (?) lavora. La città vive – materialmente e spiritualmente – di piccoli intrighi. Durante l’occupazione, tutti quei piccoli intrighi erano diventati un solo immenso intrigo contro i tedeschi. Quando essi se ne andarono, il mio amico – soddisfazione patriottica ed umana a parte – si sentì per qualche tempo addosso (e mi giurava di non essere stato l’unico) la malinconia del disoccupato”.

Dove il tono s’innalza nuovamente, facendosi malinconico di fronte alla tragedia nazionale, è nelle prose su Mussolini. Nella misura di poche righe, le battute fulminano vezzi, sotterfugi e risentite violenze del Duce, di cui si scortica la psicologia senza risparmiarne le ambizioni totalitarie:

“Non era antisemita … Nemmeno era, nella sua natura profonda, sanguinario. Era carcerario”.

E Mussolini si sovrappone alla storia d’Italia, alla ricerca del

“Significato di una vita. Fu in gran parte, risentimento. Contro la patria che non poteva (egli forse pensava ‘non voleva’) nutrirlo. … Contro i paesi ricchi, che non accoglievano a braccia aperte gli emigranti italiani (specialmente socialisti). Il giorno che, con celato (alcuni dicono visibile) batticuore, proclamò, dal balcone di Palazzo Venezia: Ho fatto consegnare i passaporti agli ambasciatori di Francia e d’Inghilterra egli anche (purtroppo) dichiarò una Guerra; ma, più ancora, sciolse un voto della sua giovanezza … ”.

Quanto alle Primissime scorciatoie, scritte un decennio prima a Trieste, non possono essere pubblicate nel 1935, intrise come sono di argomenti “politici”, come la guerra d’Etiopia: il poeta, affidandole a Pierantonio Quarantotto Gambini i giorni successivi all’armistizio dell’8 settembre, elimina i testi più pericolosi per non compromettere l’amico. Solo parte di queste prime prose sono poi recuperate e trasformate da Saba, che se ne serve come elemento di base per la redazione di quelle successive e di confronto con lo stato d’animo che lo attraversa alla fine del conflitto.
Ma la distinzione tra argomentare politico e impolitico appare schematica e fuorviante, soprattutto in relazione ai testi del 1945. Se Saba rifugge dalla puntuale considerazione sulla singola iniziativa di tipo politico-partitico – tanto da dedicare poi alcuni spunti sarcastici a un “amico comunista” – è proprio la natura profonda e trasversale del suo periodare che trasforma queste prose in strumento di approfondimento sulla natura umana, ove il gesto politico è anche riflesso del portato inconscio dei dittatori, come nel “ritratto” di Hitler “eseguito nel 1933”:

“Con quei baffetti sotto il naso, e quella smorfia facciale, come fiutasse sempre… un cattivo odore. E lo fiuta infatti. Non gli viene – come egli crede – dall’esterno (da comunisti, ebrei, polacchi ed altri popoli slavi, intellettuali di destra e di sinistra, francesi degeneri, e via discorrendo… fino a comprendere tutto il mondo abitato) ma solo da lui, dal suo di dentro. E’ una malattia, ma una brutta malattia; ed anche – allo stato attuale della scienza – inguaribile. Si chiama paranoia”.

E la politica della paranoia conduce ai crematori di Majdaneck.



Paru dans "Studi e ricerche di storia contemporanea", n. 64, dicembre 2005

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