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LES MEMOIRES

Transactions Culturelles Electroniques/Imprimées




Rosai, Via Toscanella, 1922

Huile sur toile, 65 x 54 cm
Florence
http://www.comune.fi.it





Ettore Janulardo

La città futura: dall’avvenire al regime

Nostalgia del futuro


Nel contesto culturale nazionale l’immagine pittorico-letteraria della città s’impone in termini innovativi con il futurismo. E’ in quest’ambito rappresentativo che il mito della “città tentacolare” si definisce in Italia, divenendo fonte archetipica della creazione artistica e topos della società in trasformazione, che si costruisce nello slancio e con lo sforzo di una comunità di produttori.
Ma si tratta di un’invenzione letteraria in anticipo sui tempi. Esaltando una metropoli industriale frenetica e rivoluzionaria, Marinetti e i futuristi si compiacciono di descrivere – con frasi ed immagini spesso tardivamente tributarie del simbolismo – una realtà trasformata che non si era ancora generalizzata nello scenario socio-economico italiano. In maniera opposta e speculare, i futuristi paiono così condividere, insieme ai nostalgici del passato e ai detrattori delle trasformazioni della vita urbana, la sensazione mitizzata di una trasformazione già avvenuta, i cui risultati sarebbero evidenti agli occhi di tutti.

A fronte dell’immagine futurista di una rivoluzione metropolitana in atto, ricordiamo la realtà storica ed esaminiamo alcuni dati statistici.
Il tessuto socio-economico peninsulare è in ritardo rispetto al contesto europeo più sviluppato. L’evoluzione delle strutture urbane italiane riproduce la frammentazione della storia pre-unitaria: a una pluralità di micro-stati e di micro-capitali corrisponde il frazionarsi del ruolo stesso di capitale nazionale, trasferita da Torino a Firenze e poi a Roma nell’arco di un decennio. Oltre che per aspetti della dimensione politica, la storia italiana si avvicina a quella tedesca – più che a quella francese o inglese – anche per i particolarismi territoriali e per la presenza, in gran parte dello Stato, di luoghi urbani d’importanza tra loro comparabile, in assenza di una città in grado di svolgere un riconosciuto ruolo-guida. Le città italiane entrano così nel XX secolo senza aver potuto attirare popolazione rurale al di là di una sfera d’influenza limitata, più tardi definibile di “profondità regionale”.
Nella sua analisi del 1907 sul “pensiero moderno”, Napoleone Colajanni pubblica alcuni dati sull’espansione “mostruosa” delle principali metropoli straniere (Parigi, Berlino, Londra, New York, Chicago), sottolineando nel contempo le differenze riscontrabili nella situazione italiana.

Egli osserva che le città più popolose della penisola erano, nel 1800, le seguenti:

Napoli 350.000 abitanti
Milano 170.000 ”
Roma 153.000 ”
Palermo 140.000 ”
Torino 74.000 ”

E, nel 1901, la situazione non appare profondamente diversa:

Napoli 547.503 abitanti
Milano 490.000 ”
Roma 424.943 ”
Torino 329.691 ”
Palermo 305.716 ”

Tali cifre sono testimonianza di una crescita urbana regolare, incapace tuttavia di generare le ampie agglomerazioni umane osservabili fuori d’Italia. Benché avvertibile nell’evoluzione socio-economica del territorio alla fine del XIX secolo, il movimento migratorio verso i maggiori centri urbani non è incoraggiato né dalla borghesia nazionale né dalle autorità politiche, che considerano con inquietudine la tendenza all’urbanizzazione. Meno tentacolare delle metropoli straniere, la città italiana è vista come luogo di degradazione fisica e morale e come fonte di problemi che il giovane Stato unitario non sembra in grado di visualizzare nella sua complessità né, a maggior ragione, di affrontare correttamente.
E la realtà con cui confrontarsi è la gestione concreta delle città, che deve comporsi con una serie di dati problematici, tipici dello Stato italiano nella seconda metà dell’Ottocento:
- fragilità dell’amministrazione statale;
- difficile situazione economica;
- assenza di un’autentica classe borghese;
- mancanza di una moderna cultura industriale;
- basso livello degli investimenti privati;
- alfabetizzazione pressoché nulla;
- necessità d’interventi risanatori nei principali “centri storici”.
Proseguendo una tradizione che ha per lungo tempo attraversato la storia italiana – e che già nella “rifeudalizzazione” cristallizza un processo di periferica decadenza rispetto ai flussi commerciali dell’Europa settentrionale –, i politici e i consulenti dello Stato unitario suggeriscono la fedeltà alla campagna come antidoto alla degenerazione della vita urbana. Si valuta che l’ambiente cittadino produca effetti deleteri sulla popolazione, anche se talvolta si ammette che la circolazione delle idee e il progresso possano essere positivamente influenzati dall’atmosfera cittadina. Le condizioni di vita negli ambienti rurali non sono migliori: vi si può constatare quell’insieme di malattie, di drammi morali (incesti e violenze) e di problemi quotidiani (fame, miseria, analfabetismo) di cui si paventa la diffusione nei centri urbani. Per le autorità costituite, scoraggiare la possibile urbanizzazione dei diseredati consente la loro dispersione nei territori rurali: rendendo meno visibili tali problemi, ogni eventuale sforzo di soluzione diviene meno urgente.
La migrazione verso i maggiori centri urbani non corrisponde a uno sconvolgimento sociale nel contesto italiano. Rispetto a ciò che avviene nei principali paesi industrializzati all’inizio del XX secolo – ove i flussi migratori sono in gran parte costituiti da contadini che entrano per la prima volta in contatto con una realtà urbana, obbligata perciò a confrontarsi con un dato demografico e socio-economico significativamente differente –, la maggior parte dei movimenti migratori italiani proviene dalle piccole città di provincia, da cui i membri della piccola e media borghesia si dirigono verso i centri principali (ovvero le ex capitali degli Stati pre-unitari), alla ricerca di nuove possibilità e di una definitiva affermazione sociale. Le città maggiori sono così delegate a svolgere funzioni di filtro sociale e di stabilizzazione gerarchica per esponenti della borghesia di provincia.

Dopo il 1861, il ricorrere di epidemie in numerose città d’Italia dimostra che la situazione igienica è difficile; gli immobili delle zone centrali di città importanti (Napoli, Roma, Palermo) sono in pessimo stato. La soluzione preventivata consiste nella demolizione dei quartieri insalubri e nel trasferimento degli abitanti. E’ in tale contesto che trova origine la logica dell’emergenza, che informa di sé la politica dell’edilizia popolare e che determina il “modo d’uso” delle periferie italiane: destinate ad accogliere, più che ancora scarsi forestieri alla città in procinto d’inurbarsi, gli ex abitanti del centro storico, confinati in una indefinita zona di cintura tra la città e la campagna. Nella lettura politica della città italiana del secondo ‘800, la periferia tende così a configurarsi come ultimo scalo cittadino e luogo dell’allontanamento, anziché definirsi come prima tappa d’inclusione nel perimetro urbano.
I dibattiti e le scelte politiche riflettono tale quadro emergenziale. Mentre si indica con raccapriccio il vorace gigantismo delle metropoli straniere, non si determinano né tempi né modalità di uno sviluppo urbano compatibile e moderno: in questo campo, la funzione amministrativa del primo cinquantennio dello Stato unitario sembra ridursi a trovare e a riempire delle abitazioni attribuite con metodi paternalistici e clientelari.
Le descrizioni riproducono allarmate questa percezione dell’urgenza, lanciandosi in letture di situazioni straniere solo in minima parte confacenti al contesto nazionale dell’inizio del XX secolo:

“Ma ecco la rivoluzione borghese, ecco la grande industria che provoca la fiumana immigratoria dalle campagne ai centri urbani, attorno e nei quali sorgono a miriadi le officine e i grandi stabilimenti; ecco l’industrialesimo che eccita una intensità ognor crescente dei traffici ed abbisogna quindi di ampie, diritte vie per trasporti pesanti, rapidi e frequenti”.

Rivisitazione di paure ancestrali, come la mitica violazione della madre terra, tale descrizione tende a scivolare verso il campo estetico, introducendo una serie di considerazioni sul mancato rispetto della tradizione artistica e sulla negatività dell’architettura generata dalla civiltà industriale:

“Comincia il dominio del piccone demolitore nella distruzione dell’antico, della squadra e del compasso nella ricostruzione. L’unica preoccupazione del tecnico è l’utilizzazione dello spazio per un fine economico, la pianta si riduce a una suddivisione in lotti rettangolari, con vie ad angolo retto, e le città si trasformano da organismi vivi in scacchiere di parallelepipedi perforati regolarmente, in una cristallizzazione artificiale arida e matematica”.

Il tono diviene più nostalgico quando si evocano le conseguenze sulla popolazione delle città rese inumane dal progresso tecnico – e persino da quello delle condizioni igieniche –, abbinato a una smodata attività economica:

“Il lucro, la speculazione, il far presto da un lato, le esigenze della igiene pubblica dall’altro, soffocarono la tradizione, uccisero ogni senso d’arte, fecero trascurare gli effetti della prospettiva, la logica dell’architettura, e le città si presentarono banali, monotone e incanalanti nelle loro grandi arterie correnti boreali, o mancanti, nelle ore meridiane, di un filo d’ombra”.

A fronte di una crescita urbana ancora controllabile, si preferisce così ricorrere a immagini mitiche, a proiezioni nel futuro o nel passato. Sebbene ancora priva delle necessarie condizioni socio-economiche (strutture dello Stato funzionali, affermazione di una borghesia capitalistica, sviluppo della classe operaia), si guarda alla situazione italiana dell’inizio del XX secolo come se si dovessero già subire le conseguenze di una urbanizzazione massiccia negata dalle cifre. Non proponendosi come il risultato di un’analisi socio-economica sull’evoluzione dei principali centri urbani, o come l’esito di uno studio scientifico sullo sviluppo e la gestione dei flussi migratori, le considerazioni citate non rientrano in una lettura concreta – urbanistica – del fenomeno metropolitano. Restano assenti conoscenze di carattere tecnico sulla tipologia dei terreni da utilizzare, manca la percezione delle questioni con cui confrontarsi (destinazione d’uso dei lotti, politica sociale degli alloggi e delle strutture connesse, creazione di una rete di comunicazioni urbane ed extra-urbane). Dalle pagine di cui abbiamo fornito estratti emerge invece un’interpretazione etica – o moralistica – del dinamismo metropolitano, con slittamenti verso il campo estetico.
E sono possibili interpretazioni opposte e complementari.

Le considerazioni nostalgiche trovano un terreno comune con la mitografia urbana dell’avanguardia futurista. Solo il tono s’inverte: lo sguardo inquieto sulla fine delle città del passato si trasforma, nei futuristi, in esaltazione di prospettive e panorami urbani ancora da realizzare, non meno irreali delle geometriche metropoli paventate dai “passatisti”.
Manifesti, dipinti e progetti del futurismo proclamano l’avvento di una “bellezza passeggera”, all’insegna della valenza poetica di un progresso chiamato a demolire il mondo e a ridefinirlo in modo effimero. La percezione della trasformazione urbana – reale, temuta o desiderata – diviene così il punto di partenza di una mitologia dell’avvenire tesa a creare una prospettiva rivoluzionaria nel campo estetico e nella società.
Con la presentazione di tre manifesti nel 1914 – firmati da Boccioni, Prampolini e Sant’Elia – l’architettura e la metafora della costruzione dell’avvenire fanno la loro comparsa a pieno titolo nell’immaginario dei futuristi. Dedicati in modo specifico al tema dell’edificazione, questi testi teorici sviluppano, amplificandole, delle intuizioni già presenti nell’armamentario ideologico-figurativo del gruppo, dal Manifesto di fondazione del 1909 alle rappresentazioni pittoriche. Catalogo dei topoi urbani del XX secolo e cumulo di visioni metropolitane, il Manifesto di fondazione di Marinetti propaganda l’idea di un progresso inevitabile rappresentato dalla meccanica violenza delle macchine, generatrici di prospettive costruttive rivoluzionarie.
Nel solco di una palingenesi estetica, artisti non dediti all’edificazione architettonica, come Boccioni e Prampolini, esprimono un rifiuto sprezzante nei confronti degli stili e delle costruzioni del passato. Manifestazione della valenza trasversale delle intuizioni futuriste, il primo testo teorico d’avanguardia sulla costruzione è di un pittore-scultore. Nel suo Architettura futurista. Manifesto, Boccioni attacca la “schiavitù degli ordini e degli stili antichi”, proclamando:

“Le navi le automobili le stazioni ferroviarie tanto più hanno acquistato di espressione estetica quanto più hanno subordinato la loro costruzione architettonica alla necessità dei bisogni cui erano destinate.

Alle grandi tettoie ferroviarie che erano lontanamente legate al grandioso della navata della cattedrale subentrano le pensiline sufficienti e necessarie al treno in arrivo e in partenza”.

Analogamente, Prampolini denuncia “… la monotona espressione degli stili architettonici, che sono la più piatta rappresentazione dei plagi reciproci che ogni civiltà ha potuto mettere in mostra”.

Se tali considerazioni sull’architettura esprimono la volontà di oltrepassare il messaggio artistico del passato, esse permangono tuttavia all’interno di una estetica dell’edificazione – valutata in quanto tangibile manifestazione di una rifondazione totale della società – anziché proiettare il futurismo verso la problematica tecnica della costruzione. L’artista-teorico Theo van Doesburg osserva in proposito nel 1925:

“Così, la nuova estetica divenne, anche per l’architetto … l’estetica del contrasto, della metropoli, della cultura meccanica … Prodotto di una metropoli meccanica, l’uomo moderno non è solo abituato a questa molteplicità di impressioni, ma ne prova anche un certo bisogno”.

L’estetica futurista della città – sorta di mitico e mistico culto della modernità – resta una costante ideologica nella storia del gruppo. A tale estetismo si deve imputare il disinteresse del regime fascista per i futuristi, raramente protagonisti di una committenza pubblica di livello significativo: saranno invece preferiti professionisti capaci di trasformare alcune delle intuizioni dell’avanguardia in linguaggio costruttivo solido e riproducibile nel panorama urbano italiano.

Occorre sottolineare un altro elemento della riflessione futurista sull’architettura. Come avviene in diversi contributi teorici del movimento, anche in quest’ambito si evidenzia una contraddizione irrisolta fra denuncia-manifesto-proclama – di portata potenzialmente universale – e atteggiamento sprezzante nei confronti delle influenze e degli apporti stranieri. Boccioni denuncia:

“Nella schiavitù degli stili stranieri se così si possono chiamare abbiamo invece lo snobismo intellettuale per il nord, che fa ingombrare una costruzione edilizia italiana di decorazioni di legni di stoffe di oggetti lavorati col gusto balordo del contadino delle varie steppe alla moda ungheresi russe o scandinave, che fa ornare i nostri ambienti pubblici teatri caffè banche esposizioni con i funebri marmi neri e le glaciali sculture in legno nero d’un restaurant berlinese, o con la pesante vivacità dell’orientalismo moscovita.

E’ ora di finirla.

Il solo paese che per clima e per spirito può dare un’architettura moderna di stile universale è l’ltalia.

E’ questo il suo ufficio futuro nelle arti.

Tra cinquant’anni l’ltalia avrà dato alcuni grandi artisti in pittura scultura letteratura musica architettura che detteranno legge al mondo”.

Personalità unica nel panorama artistico italiano del primo Novecento, Antonio Sant’Elia ha saputo esprimere in modo fortemente evocativo il mito metropolitano futurista. Dopo la formazione all’Accademia di Brera, partecipa nel 1914 alla mostra milanese del gruppo “Nuove Tendenze” con le tavole sulla “Città nuova”: sei visioni della città, una stazione aeroferroviaria, delle centrali elettriche e degli schizzi d’architettura. Il suo manifesto L’architettura futurista, datato 11 luglio 1914, è pubblicato il 1° agosto seguente in “Lacerba”.

“Dopo il ‘700 non è più esistita nessuna architettura. Un balordo miscuglio dei più vari elementi di stile, usato a mascherare lo scheletro della casa moderna, è chiamato architettura moderna”.

Il rifiuto dell’architettura del passato comporta la rinuncia ad ogni ornamentazione (“carnevalesche incrostazioni decorative che non sono giustificate né dalle necessità costruttive, né dal nostro gusto”) in nome della semplificazione formale: “… l’architettura futurista è l’architettura del calcolo, dell’audacia temeraria e della semplicità”. Si procede verso la definizione di una casa strutturata come una “machine à habiter”, costruzione che permette la riproduzione, su scala urbana, del totem futurista: la macchina. La città è dunque concepibile come “un immenso cantiere tumultuante, agile, mobile, dinamico in ogni sua parte, e la casa futurista simile ad una macchina gigantesca”.

Dalle affermazioni del manifesto sono assenti preoccupazioni di ordine estetico; Sant’Elia propone l’utilizzazione di materiali contemporanei che consentono di privilegiare la funzionalità a discapito della decoratività:

“La casa di cemento di vetro di ferro senza pittura e senza scultura, ricca soltanto della bellezza congenita alle sue linee e ai suoi rilievi, straordinariamente brutta nella sua meccanica semplicità …”.

Ma la visionarietà della ricerca di Sant’Elia smentisce tali proclamazioni. La maggior parte dei trecento schizzi, tavole e disegni dell’architetto comasco è caratterizzata da una grande velocità d’esecuzione, con risultati comparabili alle realizzazioni di matrice divisionista e para-cubista dei dipinti di Balla, Boccioni, Carrà, Severini.
Sant’Elia non progetta né realizza la città nuova: la disegna e la dipinge. Apporta così il proprio contributo all’elaborazione dei miti futuristi, che postulano la necessità dell’innovazione tecnica come metafora e metamorfosi della vita umana in relazione al mondo degli oggetti: e il perfezionamento estetico della forma dovrà coincidere con la sua perpetua trasformazione. E’ in nome di effetti transitori e caduchi che afferma: “Le case dureranno meno di noi. Ogni generazione dovrà fabbricarsi la sua città”. Opponendosi radicalmente ad ogni idea di durata e di continuità nel tempo, Sant’Elia percepisce la civiltà del XX secolo come il momento in cui il trionfo delle macchine si rivela incompatibile con le vestigia del passato.
In altri contributi teorici del futurismo, ove il campo d’analisi trascende la specificità dell’architettura, il tono declamatorio dei firmatari insiste invece sul significato stilistico e nazionalistico delle innovazioni proposte, con un approccio tendente al recupero del concetto di “continuità nel tempo”. E’ quanto si osserva nel capoverso finale del Manifesto della ricostruzione futurista dell’universo, firmato nel marzo 1915 da Balla e Depero:

“Le invenzioni contenute in questo manifesto sono creazioni assolute, integralmente generate dal Futurismo italiano. Nessun artista di Francia, di Russia, d'Inghilterra o di Germania intuì prima di noi qualche cosa di simile o di analogo. Soltanto il genio italiano, cioè il genio più costruttore e più architetto, poteva intuire il complesso plastico astratto. Con questo, il Futurismo ha determinato il suo Stile, che dominerà inevitabilmente su molti secoli di sensibilità”.

Ma la pretesa caducità, in nome del dinamismo, dei progetti di Sant’Elia appare contraddetta dalle strutture compatte e massicce da lui immaginate; e la “città che dipinge nelle sue tavole è ermetica e retta da una rigida organizzazione dello spazio. Diversamente da quanto proclamato nel suo manifesto, egli rappresenta edifici statici, monumentali, impressionanti, quasi tragici”.
Conseguenza irrisolta della mitizzazione metropolitana di Sant’Elia, la sua visione della macchina – della casa come macchina e della città in quanto macchina – resta segnata da un’interpretazione poetica. Al pari di altri futuristi, egli è fedele all’idea della bellezza: che si tratti di una bellezza dinamica – o anche del fascino del brutto –, Sant’Elia fa delle sue tavole un’opera d’arte da valutare secondo parametri estetici, rafforzati dalla vertiginosa consapevolezza del progetto irrealizzato. Disinteressandosi delle concrete possibilità di mettere alla prova la propria visionarietà, il giovane architetto propone meccanismi urbani che sono delle duchampiane machines célibataires, senza nessi con la realtà effettuale, senza contesto socio-economico né relazioni con le capacità tecno-costruttive dell’architettura italiana del primo Novecento:

“i caratteri fondamentali dell’architettura futurista saranno la caducità e la transitorietà … Questo costante rinnovamento dell’ambiente architettonico contribuirà alla vittoria del Futurismo, … pel quale lottiamo senza tregua contro la vigliaccheria passatista”.

Per altre vie, allora, con non meno mitizzate proiezioni nell’avvenire, le immaginazioni urbane futuriste raggiungono l’irrealtà delle nostalgiche riletture di un passato ancora presente, senza prevedere punti d’aggancio dialettici con la contemporaneità.

Differenziandosi dalla rapida parabola esistenziale di Sant’Elia con la sua lirica dell’avvenire, Mario Chiattone rappresenta il “principio di realtà”, attraverso il quale l’immaginazione futurista si converte in costruzioni realizzate in un contesto culturale centro-europeo.
Dapprima vicino alle inquiete tensioni di Sant’Elia, Chiattone (Bergamo, 1891–Lugano, 1957) segue corsi di pittura a Milano, dedicandosi poi a un’interpretazione massicciamente volumetrica delle visioni urbane dell’amico comasco: con quest’ultimo, Dudreville e Funi espone nell’ambito di “Nuove Tendenze”.
Numerosi progetti di Chiattone si focalizzano sul tema della metropoli moderna, di cui egli disegna linee ed edifici nel solco della cultura “Sezession” austro-tedesca, definendo una lettura urbana proto-razionale. Le costruzioni definite sulle sue tavole hanno aspetto monumentale: “egli utilizza forme geometriche identiche di dimensioni differenti, disponendole a fisarmonica, mette in relazione contrafforti come insiemi di volumi, moltiplica i piani inclinati per sottolineare le sue composizioni piramidali”.
Dal 1919, abbandonato il futurismo e lasciata l’Italia, Chiattone si sposta a Lugano, dove realizza i suoi progetti in un’ottica neo-medievale.

La morte di Sant’Elia durante la Prima guerra mondiale e l’emigrazione all’estero di Chiattone segnano la fine di un periodo utopico. L’imporsi del fascismo contribuisce alla dissoluzione del mito di una città ideale in quanto effimera: sogno contraddittorio per definizione, fantasia di eterno movimento e manifestazione tendenzialmente anarchica.
Breve stagione essenzialmente lombarda, tragicamente interrotta dalla guerra dagli stessi futuristi sollecitata, la raffigurazione mitizzata della città come “cantiere dell’avvenire” si frange contro una realtà prosaica e complessa, ma resta una delle costanti interpretative della cultura italiana del XX secolo.

Dalla costruzione dell’avvenire alle mitizzazioni di regime

Fra i contributi più interessanti alla definizione dell’immagine politico-intellettuale della città, è il numero unico de “La città futura”, pubblicato a Torino l’11 febbraio 1917. Diffusa a cura della Federazione giovanile socialista piemontese, la rivista fu interamente redatta da Antonio Gramsci, che v’inserì inoltre estratti di testi di Gaetano Salvemini, Benedetto Croce e Armando Carlini.
L’intenzione di Gramsci è evidente. La Federazione giovanile socialista ha uno scopo “educativo e formativo”, ma essa deve soprattutto preparare l’avanguardia del Partito, “l’armata proletaria che muove all’assalto della vecchia città infracidita e traballante per far sorgere dalle sue rovine la propria città”.

La metafora dell’assalto alla città del passato anticipa posizioni di apprezzamento delle capacità rivoluzionarie insite nel movimento culturale futurista:

“In questo campo nulla è prevedibile che non sia questa ipotesi generale: esisterà una cultura (una civiltà) proletaria, totalmente diversa da quella borghese;
… Cosa resta a fare? Niente altro che distruggere la presente forma di civiltà.
… I futuristi hanno svolto questo compito nel campo della cultura borghese: hanno distrutto, distrutto, distrutto, senza preoccuparsi se le nuove creazioni, prodotte dalla loro attività, fossero nel complesso un’opera superiore a quella distrutta: hanno avuto fiducia in se stessi, nella foga delle energie giovani, hanno avuto la concezione netta e chiara che l’epoca nostra, l’epoca della grande industria, della grande città operaia, della vita intensa e tumultuosa, doveva avere nuove forme di arte, di filosofia, di costume, di linguaggio: hanno avuto questa concezione nettamente rivoluzionaria, assolutamente marxista, quando i socialisti non si occupavano neppure lontanamente di simile questione …
I futuristi, nel loro campo, nel campo della cultura, sono rivoluzionari; in questo campo, come opera creativa, è probabile che la classe operaia non riuscirà per molto tempo a fare di più di quanto hanno fatto i futuristi …”.

Se “… la città è il luogo di uno scontro continuo tra forze antagoniste ed essa illustra, attraverso la stessa varietà della sua archiettura, l’eterna lotta fra le classi”, in Gramsci l’interpretazione ideologica dello spazio urbano si carica di connotazioni simboliche che ristrutturano l’immaginario della città storica e della stessa metropoli rivoluzionaria vagheggiata dal futurismo:

“Odio gli indifferenti. Credo … che ‘vivere vuol dire essere partigiani’. Non possono esistere i solamente uomini, gli estranei alla città. Chi vive veramente non può non essere cittadino, e parteggiare. …
L’indifferenza è il peso morto della storia … è la palude che recinge la vecchia città e la difende meglio delle mura più salde …”.

Questa visione conflittuale della città può esprimersi in termini architettonici e urbanistici, come osservato da Roudaut a proposito del “conflitto tra le città e all’interno stesso delle città, ove le classi si affrontano nella forma di architetture confortevoli o di luoghi scomodi, di dimore centrali o di abitazioni periferiche”.

E Gramsci continua, nelle pagine de “La città futura”, illustrando il titolo della rivista politica:

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze virili della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo”.

Tale prospettiva può leggersi come definizione di un binomio città-campagna dal significato politico evidente:

“Da una parte il proletariato nel senso stretto della parola, cioè gli operai dell’industria e dell’agricoltura industrializzata, dall’altra i contadini poveri: ecco le due ali dell’esercito rivoluzionario. Gli operai di città sono rivoluzionarî per educazione, li ha resi tali lo svolgimento della coscienza e la formazione della persona nella fabbrica … ; gli operai di città guardano oggi alla fabbrica come al luogo in cui si deve iniziare la liberazione, al centro di irradiazione del movimento di riscossa … Gli operai sono destinati a essere, nella insurrezione cittadina, l’elemento estremo ed ordinatore ad un tempo, quello che non lascerà che la macchina messa in moto si arresti e la terrà sulla giusta via …”.

Queste parole possono completarsi con altre riflessioni, apparse ne “L’Ordine Nuovo”:

“Si prenda Torino: città per eccellenza industriale, città dove si accentra quindi una grande massa di operai. Il fatto che domina tutta la vita dei proletari torinesi è il lavoro, e il lavoro compiuto secondo le leggi esistenti della più avanzata produzione industriale. La scuola dove si forma l’animo e la mente dell’uomo di popolo di Torino è la fabbrica … L’operaio che era sceso in città dalle campagne, che ivi non aveva forse mai sentito altra parola che quella del prete, non aveva mai abbracciato colla mente orizzonti più vasti di quelli che si possono scorgere da un campanile di villaggio … è stato tratto a prender parte a forme di vita collettiva che idealmente possono concepirsi estese tanto da comprendere tutta l’umanità, è diventato parte attiva, cellula che collabora in modo autonomo alla vita del mondo. E’ diventato un uomo ed è contemporaneamente diventato un socialista.

Si tenga perciò presente una cosa, l’essenziale: da noi, in città, la formazione delle coscienze socialiste è quasi un prodotto necessario della vita economica che si svolge tra di noi, e a cui noi partecipiamo.

Osserviamo ora come stanno le cose nella Romagna … il socialismo dei romagnoli non si basa sopra una rigida distinzione di classi, e per questo è anch’esso più fatto politico che economico … ma si vive in un ambiente in cui la lotta di classe non si impone a tutti come una innegabile realtà della vita moderna.
Questo sia detto specialmente per le città. In esse son grandi agglomeramenti di masse industriali e proletarie, ma prevalenza ancora del vecchio sistema dell’artigianato”.

Dalle osservazioni di Jacchia, il confronto tra la moderna realtà industriale torinese e il mondo artigianale della Romagna istituisce una delle chiavi d’interpretazione del quadro socio-economico verso gli anni Venti, con un’analisi tutta interna all’ideologia socialista, aliena dalle superfetazioni della propaganda e delle violenze fasciste.
Testimonianza di un’acuta percezione del contesto urbano torinese – ove le procedure tecniche tendono a strutturare la città e le mentalità in nome dell’efficienza produttiva –, il messaggio di Gramsci, intellettuale prima ancora che politico, è disegno di una prospettiva fondata sull’aristocrazia operaia della città industriale, nelle sue moderne aperture antitetica rispetto alle cittadelle fortificate del passato.

Cerniera della contemporaneità italiana anche nell’ambito della storia urbana, il 1919 de “L’Ordine Nuovo” è segnato dalla fondazione milanese dei “Fasci di combattimento” e, un mese dopo, dall’abbandono della Conferenza di Parigi da parte della delegazione italiana: in giugno, tornato sui propri passi, Vittorio Emanuele Orlando è sostituito da Francesco Saverio Nitti. Agitazioni popolari attraversano il paese in estate: nelle valutazioni di Nenni si tratta di moti

“tumultuosi, anarcoidi, privi di direzione … Ogni città fece per proprio conto. I negozi furono assaltati, saccheggiati i forni … in tutta Italia sorgevano improvvisati Soviet annonari; nell’Emilia, nella Romagna, in Toscana, nelle Marche, si poteva parlare di vera e propria insurrezione popolare, con frequenti e sintomatici casi di fraternizzazione fra rivoltosi e truppe. A Firenze la massa era padrona della città …”.

Nel settembre 1919, D’Annunzio e i “legionari” convergono su una città che rappresenta un elemento di polarizzazione dell’immiginario ideologico fra le due guerre. L’occupazione di Fiume è laboratorio politico del nazionalismo revanscista italiano e prefigurazione della marcia su Roma, nonché terreno di una crisi internazionale disinnescata, solo temporaneamente, alla fine del 1920. Nel settembre 1920, la reggenza dannunziana promulga la Carta del Carnaro, Costituzione del territorio di Fiume. Nella Premessa, Alceste De Ambris scrive:

“Il Popolo della Libera Città di Fiume, in nome delle sue secolari franchigie e dell’inalienabile diritto di autodecisione, riconferma di voler far parte integrante dello Stato Italiano mediante un esplicito atto d’annessione; ma poiché l’altrui prepotenza gli vieta per ora il compimento di questa legittima volontà, delibera di darsi una Costituzione per l’ordinamento politico ed amministrativo del Territorio (Città, Porto e Distretto) … e degli altri territori adriatici che intendono seguirne le sorti”.

Attraverso la mitizzazione di Fiume – con relativa Carta costituzionale da città-stato – la lettura della città novecentesca cambia di segno, trasformandosi da cantiere dell’avvenire in laboratorio del nazionalismo, in bilico tra anarco-sindacalismo e prefigurazione del corporativismo fascista.
L’allontanamento di D’Annunzio da Fiume, a seguito del “Natale di sangue” del 1920, non segna un’inversione di tendenza rispetto a una situazione italiana dai tratti involutivi. Le agitazioni operaie del settembre 1920, non superando il perimetro delle città del “triangolo industriale”, vi restano confinate dall’indifferenza delle masse rurali, mentre alla fine dello stesso anno, contro le terre delle “leghe rosse” e contro i centri urbani ad alta concentrazione socialista, si scatenano le squadre fasciste.

La percezione di frange della sinistra, e in particolare di Gramsci, della funzione formativa svolta dal contesto urbano appare simmetricamente opposta alla visione mussoliniana della città. L’uno e l’altro consapevoli della valenza politico-rivoluzionaria di un centro industriale e produttivo – la Torino di Gramsci o la Milano di Mussolini –, concepiscono la città come laboratorio militante della rivoluzione proletaria o, viceversa, come spazio acquisito, controllato e sottomesso dalla gerarchica violenza fascista.
In quest’ottica, l’opzione ruralista sviluppata dal regime mussoliniano – oltre a costituire uno slogan destinato a coprire l’indispensabile industrializzazione del paese – tradisce un orientamento di fondo anti-urbano, retaggio di una formazione politica legata agli ambienti romagnoli, dunque lontana, e aliena, dalla visione produttivistica delle metropoli industriali. E i piani regolatori delle città del regime possono intendersi come la frangia urbana – da gestire in termini di commesse pubbliche e di diradamento dei centri storici – del “piano regolatore nazionale” di un paese che si vuole presentare come un’unità agricola da sfruttare sino alle estreme porzioni di terreno. Ma tale “piano nazionale”, illustrato nel “Discorso dell’Ascensione” del 26 maggio 1927, è destinato a concretizzarsi in una dimensione limitata e settoriale: la bonifica delle zone malsane e la costruzione di “città” nuove, come i piccoli centri della piana pontina destinati a colmare ciò che Mussolini definisce un “vuoto tra Roma e Napoli”.
Una prima tipologia d’intervento del regime fascista s’inserisce in una politica anti-urbana omogenea a quella che sottende le operazioni di bonifica: si scoraggia – anche con apposite norme restrittive – l’immigrazione nelle grandi città e si punta allo sviluppo di centri minori, dotati di livelli minimi di strutture e di servizi in grado di ancorare i residenti alle dimensioni degli spazi rurali.
Un secondo livello di realizzazioni riguarda gli spazi e le forme della rappresentazione urbana connessa alle funzioni e alle simbologie del potere: nei piccoli centri e nelle grandi città si sgranano i luoghi deputati della presenza fascista, adeguatamente segnalata da tribunali e stazioni, “case del fascio” e uffici postali, “torri littorie” e impianti sportivi, con un’efficacia ideologico-propagandistica tanto superiore quanto più risulta “razionale” ed esteticamente riuscito l’edificio voluto dal regime.
Il livello superiore della politica fascista nei confronti della città è riservato alla capitale. La conquista mussoliniana del potere si nutre del mito di Roma: “città eterna” della latinità e della mediterraneità imperiale, essa è il punto di riferimento dell’ideologia propagandistica del Duce. Ma la mitizzazione della capitale risponde ancora a una formazione e a una logica anti-urbana, destinata a contrapporre e a sovrapporre, ai centri della modernità operaistico-industriale, l’alone mitico di una storia antica che dovrebbe farsi eterno presente.

In un articolo apparso sulla rivista “Gerarchia” del settembre 1928, Mussolini indica le motivazioni ideologiche di una politica demografica concepita come arma di massa. Se il titolo dell’intervento – Il numero come forza – evidenzia il nesso tra popolazione di un paese e suo ruolo militare, significativa è l’articolazione del pensiero del Duce.
Partendo dal libro di Korherr sulle dinamiche demografiche, pubblicato in Germania nel 1927 e fatto tradurre in italiano per ordine di Mussolini, egli “manipola le tesi pseudoscientifiche di Korherr e le applica alla situazione italiana, esasperandone le previsioni pessimistiche e il legame tra diminuzione delle nascite e degenerazione culturale e morale”. Mussolini si fa entusiasta portavoce di un autore che dichiara di non conoscere personalmente:

“La dimostrazione che il regresso delle nascite attenta in un primo tempo alla potenza dei popoli e in successivi tempi li conduce alla morte, è inoppugnabile. Anche le varie fasi di questo processo di malattia e di morte, sono esattamente prospettate e hanno un nome che le riassume tutte: urbanesimo o metropolismo, come dice l’autore”.

La fonte tedesca cui si attinge, implicata nella contabilità della Shoah, e lo stesso argomentare del Duce definiscono un approccio di tipo biologico-razzistico al “problema” dell’urbanesimo: ben prima dell’avvento al potere del nazional-socialismo, la partizione tra città e campagna è delineata secondo un programma di ruralismo demografico rozzamente reazionario e portatore di una visione della donna come incubatrice di uomini bianchi da contrapporre a masse di “negri e gialli”. Riportiamo alcune delle considerazioni espresse da Mussolini nel paragrafo Aumento patologico.

“La metropoli cresce, attirando verso di sé la popolazione della campagna, la quale, però, appena inurbata, diventa – al pari della preesistente popolazione – infeconda. Si fa il deserto nei campi; … la metropoli è presa alla gola: né i suoi commerci, né le sue industrie, né i suoi oceani di pietre e di cemento armato, possono ristabilire l’equilibrio oramai irreparabilmente spezzato: è la catastrofe.
La città muore, la nazione … non può più resistere … Ciò accadrà e non soltanto fra città o nazioni, ma in un ordine di grandezze infinitamente maggiore: la intera razza bianca, la razza dell’Occidente, può venire sommersa dalle altre razze di colore che si moltiplicano con un ritmo ignoto alla nostra.
Negri e gialli sono dunque alle porte?”.

Le parole di Mussolini forniscono la copertura politica ai proclami di Mino Maccari:

“... Strapaese è stato fatto apposta per difendere a spada tratta il carattere rurale e paesano della gente italiana; vale a dire, oltreché l’espressione più genuina e schietta della razza, l’ambiente, il clima e la mentalità ove son custodite, per istinto e per amore, le più pure tradizioni nostre.
Strapaese si è eretto baluardo contro l’invasione delle mode, del pensiero straniero e delle civiltà moderniste ...
Noi italiani, svegliati alla realtà e al dovere politico per opera di un grande costruttore, dobbiamo fare che l’edificio politico s’innalzi sulle fondamenta d’una italianità pretta e incorrotta”.

Esplicite nella delineazione di un clima anti-moderno e anti-urbano sono anche le affermazioni programmatiche di Ardengo Soffici in Arte Fascista:

“Il settimo principio vuole infine che contro il parossismo meccanicistico e urbanistico, flagello e aberrazione d’origine americana, germanica o britannica (elementi dell’arte antifascista) l’arte fascista s’ispiri alla semplice e vergine natura, torni all’amore della campagna e di tutto quanto sa di etnicamente nativo, spontaneo, grave, e che è nostro fondamentalmente; poiché sempre l’Italia ha avuto il suo fondamento civile nell’attaccamento dei suoi figli ai beni ed alla realtà patriarcale del suolo, e sempre l’avrà”.

La mitizzazione della sanità demografica rurale in antitesi all’egoismo metropolitano definisce ulteriormente il carattere regressivo del controllo dittatoriale fascista sul territorio italiano, storicamente caratterizzato da una pluralità di centri urbani portatori di idealità e libertà civiche. Nella prassi politica mussoliniana solo le città in grado di aumentare la propria popolazione senza ricorrere agli apporti dell’immigrazione dalle campagne hanno il diritto-dovere, civico e fascista, di crescere. Ma in tale ottica la guerra e le sue devastazioni sono il consequenziale sbocco di una politica di dissoluzione dei luoghi della dialettica civile, già iniziata con l’asservimento degli spazi urbani alle insegne del potere fascista.

Nel suo discorso del 3 novembre 1928, alla vigilia delle celebrazioni della vittoria nella guerra ’15-’18, Mussolini si rivolge “Ai rurali d’Italia”. Netta è la dicotomia tra gli operai delle fabbriche occupate durante le agitazioni socialiste e i “rurali” impegnati in guerra:

“… non è senza significato che siete convocati a Roma il 3 novembre, vigilia di quel decennale della vittoria, che fu soprattutto uno sforzo dei rurali d’Italia, che non occupavano le officine, ma le trincee”.

Il discorso prosegue con una dichiarazione d’intenti:

“Ho voluto che l’agricoltura andasse al primo piano dell’economia italiana con fondate ragioni: i popoli che abbandonano la terra sono condannati alla decadenza … la terra è una madre che respinge inesorabilmente i figli che l’hanno abbandonata”.

Riferendosi poi alla fondazione milanese dei “Fasci di combattimento”, Mussolini crea un effetto di sovrapposizione cronologica, che istituisce un’identità di fondo tra i rurali-soldati delle trincee e le violenze fasciste alla fine del conflitto :

“Volevo anche manifestare la mia gratitudine di fascista, perché se è vero che il fascismo è nato in una città, è del pari vero che se non avesse avuto, nelle fanterie rurali, il suo poderoso, disciplinato esercito di combattenti, il fascismo non avrebbe mai rovesciato la vecchia Italia e sepolto il vecchio regime”.

Esplicito è anche il titolo di un intervento di Mussolini del 22 novembre 1928.
In Sfollare le città l’incipit sintetizza una visione e una politica:

“Alcuni dati statistici … conducono a conclusioni nettamente antiurbanistiche, soprattutto dal punto di vista del problema della casa; insolubile problema finchè non sarà adottata questa formula: impedire l’immigrazione nelle città, sfollare spietatamente le medesime”.

Mussolini lamenta che nel corso dei precedenti sei anni – segnati dalle prime iniziative concrete del regime nella gestione del territorio – si siano “pietrificati” miliardi in edilizia urbana: “… intere città sono state create quasi in un batter d’occhio …”. Ed esaminando l’evoluzione demografica delle principali città italiane, il Duce constata un equilibrio, o addirittura un saldo negativo, tra nascite e morti: non occorrerebbe dunque un gran numero di abitazioni per far fronte al ritmo naturale di crescita demografica. Ma “il problema cambia immediatamente d’aspetto e diventa tremendamente pauroso … quando si prende in esame l’aumento artificioso, cioè patologico, delle città, dovuto all’immigrazione dai minori paesi e dalle campagne”.

Di fronte a tale “terribile circolo vizioso”, destinato a produrre delle “città mostruose”, Mussolini indica una “parola d’ordine”. Occorre

“facilitare con ogni mezzo e anche, se necessario, con mezzi coercitivi, l’esodo dai centri urbani; difficoltare con ogni mezzo e anche, se necessario, con mezzi coercitivi, l’abbandono delle campagne; osteggiare con ogni mezzo l’immigrazione a ondate nelle città. …
Quanto all’industria edile, ci sono milioni di case rurali, inabitabili, da demolire e da rifare, il che rientra nei piani della bonifica integrale”.

Una nota comparsa due giorni dopo su “Il Tevere” conferma l’importanza che Mussolini annette alla crociata anti-urbana:

“Tutti vollero essere cittadini della moderna città dai tentacoli giganteschi, cellula del nuovo paradiso terrestre. Così nacquero tutte le vecchie storture che oggi andiamo lamentando, letterarie e politiche, sociali e morali, contro le quali una alla volta il fascismo è costretto a muovere guerra. Stamane la città tentacolare trema come per un sommovimento tellurico sotto l’impeto della parola di Mussolini: un’altra stortura che si elemina per virtù di un’eroica volontà correttiva”.

Il regime non si contenta delle dichiarazioni. Sono introdotte leggi che vietano l’emigrazione italiana all’estero, senza tuttavia rispondere alle necessità interne del mercato del lavoro: l’esodo nelle città, proprio per l’assenza di altri sbocchi dalle campagne, continua negli anni della crisi internazionale. Nel 1926, un Comitato permanente per le migrazioni interne è istituito presso il Ministero dei Lavori pubblici e i suoi poteri di controllo sui movimenti delle masse proletarie sono accresciuti nel 1931.
Negli anni Trenta, anche riducendo il programma della “bonifica integrale” ad interventi concentrati nelle paludi pontine, il regime cerca di bloccare l’urbanizzazione delle popolazioni rurali. Ma i risultati sono inferiori alle attese, rendendo necessaria, nel 1939, l’adozione di norme più severe. L’articolo 1 della Legge n. 1092, del 6 luglio 1939, stabilisce:

“Nessuno può trasferire la propria residenza in comuni del regno capoluoghi di provincia o in altri comuni con popolazione superiore a 25.000 abitanti, o in comuni di notevole importanza industriale, anche con popolazione inferiore, se non dimostri di esservi obbligato dalla carica, dall’impiego, dalla professione o di essersi assicurata una proficua occupazione stabile nel comune di immigrazione o di essere stato indotto da altri giustificati motivi, sempre che siano assicurati preventivamente adeguati mezzi di sussistenza”.

La parabola fascista attraversa lo spazio urbano nazionale – essenziale per il controllo del paese – nel nome di una mistificazione. Per Mussolini, il mito senza tempo di Roma imperiale consente di oscurare e rimuovere il dinamismo socio-politico delle città della contemporaneità produttiva: e i luoghi urbani italiani non avrebbero altra prospettiva che il conformarsi all’archetipo delle “province” italiche sotto la dominazione romana. La “rinascita” dell’impero, nel 1936, non può che fondarsi sul dominio di una città-mito, capitale del fascismo destinata a riostentare il ruolo rappresentativo e monumentale della classicità, aliena dal trasformarsi in centro della modernità dinamica.
Per il regime fascista la mobilitazione e la tensione militare della nazione sono indispensabili. Disciplina paramilitare per la popolazione civile e moltiplicazione delle occasioni di confronto violento – conquista dell’Etiopia, partecipazione alla guerra civile spagnola, entrata in guerra a fianco della Germania – dovrebbero rappresentare le tappe della mutazione antropologica degli Italiani, chiamati al bellicismo. Ma anche il ruolo dei grandi agglomerati urbani dovrebbe definirsi agli occhi di Mussolini, costantemente turbato – negli anni Venti e Trenta –, dalla situazione demografica italiana: ritenute responsabili dello scarso contributo alla crescita della popolazione nazionale, le città divengono le prime vittime dell’improvvisata scommessa bellica mussoliniana. Ma una vittoria avrebbe potuto comportare, nella visione del Duce, un’analoga svalutazione delle prerogative sociali e culturali delle città nazionali, secondo uno schema improntato alla romanità imperiale: una “città eterna”, sede del potere fascista e del papato, destinata a regnare su territori italici e d’oltremare, una “Roma di Mussolini” dispiegata nel suo splendore e già tratteggiata dall’iconografia ufficiale, fuori dal tempo, dunque anti-storica.
Prefigurazione di una capitale di regime è l’articolo militante di Pietro Maria Bardi:

“Edificare, per il Fascismo, vuol dire rimanere. Una bella fatica attende la generazione d’oggi, in tutti i quadri dell’attività nazionale: ma è certamente agli edificatori che si affida il compito più delicato: fermare con la consistenza della pietra, del cemento, dell’acciaio e dei più nobili elementi della natura, con il soffio dell’arte, l’orma gigantesca di Mussolini, affinché i posteri ne abbiano stupore”.

Su Roma, scriveva il Mussolini massimalista del 1910:

“Roma città parassitaria di affittacamere, di lustrascarpe, di prostitute, di preti e di burocrati, Roma – città senza proletariato degno di questo nome – non è il centro della vita politica nazionale, ma sibbene il centro e il focolare d’infezione della vita politica nazionale”.

La vita economica della capitale sembrava fare a meno del proletariato operaio, caratteristica che risultava programmaticamente indicata già nelle dichiarazioni politiche dei primi anni successivi a Porta Pia, quando s’insisteva sulla metafisica e metastorica separatezza della nuova capitale rispetto alle tensioni della vita attiva:

“In una soverchia agglomerazione di operai in Roma io vedrei un vero inconveniente, perché io credo che qui sia il luogo dove si debbono trattare molte questioni che vogliono essere discusse intellettualmente, che richiedono l’opera di tutte le forze intellettuali del paese, ma non sarebbero opportuni gli impeti popolari di grandi masse di operai”.

Torniamo a Mussolini. Il tono rispetto alle attività economiche di Roma cambia nel 1924. Dal balcone di Palazzo Chigi, il Presidente del Consiglio, che sta trasformando la conquista della capitale in regime che controlla l’intera nazione, dichiara:

“Roma lavora … non è già la capitale di un piccolo regno di antiquari”.

Nel 1931 è approvato il piano regolatore della capitale coordinato da Marcello Piacentini. La gloriosa potenza del passato imperiale è rivendicata in quanto patrimonio nazionale riscoperto dalla “rivoluzione fascista”. Ma, dietro quest’immagine definita di Roma, caratterizzata da quattro settori urbani differenti (edifici del potere, quartieri dei villini, quartieri con edifici sovvenzionati dallo Stato, costruzioni popolari in zone semi-periferiche), il piano del 1931 concede la possibilità di numerose deroghe. Si osserva in proposito:

“Le palazzine caratterizzano la crescita di Roma contemporanea ... e sono possibili in seguito alla variante del 1920 al regolamento edilizio, che amplia le cubature e le altezze dei villini, rendendoli più adeguati alle reali possibilità economiche del ceto medio-alto … Le palazzine divengono, negli anni trenta, l’occasione di lavoro per molti giovani architetti ‘moderni’ ”.

E, nel 1932, Mussolini sottolinea la terza posizione raggiunta da Roma – dopo Milano e Torino – nel settore della piccola e media industria, glorificando così un’immagine multipla della capitale: città della storia, del potere spirituale, del potere politico e della vita economica. Occorrerà rivestire questo tessuto urbano, storico e mitizzato al contempo, di un volto architettonico all’altezza delle “eterne” ambizioni del fascismo: è il compito riservato ai progettisti dell’urbanistica romana tra il 1936, anno della proclamazione dell’Impero, e il 1942, anno della prevista Esposizione Universale e celebrazione del ventennale del fascismo.
Negli anni Venti Virgilio Marchi aveva così espresso l’esaltazione modernistica dei futuristi:

“La città futurista renderà i cervelli più elastici e attivi. La volontà sarà pizzicata da nuovi stimoli, i desideri si moltiplicheranno come tanti organismi irresistibili invadenti ogni essere in un genere d’infezione eccitante e benefica.
Un nuovo aspetto della città e della casa creerà senza dubbio un nuovo spirito e un nuovo regime di vita fra gli uomini”.

Ma negli anni seguenti il fascismo piega l’ipotesi di “nuovo regime” intellettuale in anti-urbana retorica monumental-ruralista e in simbologia costruita dello Stato totalitario. Le “demolizioni” delle transeunti costruzioni generazionali di Sant’Elia sono piegate dal regime alla logica del potere speculativo, con la distruzione di vestigia antiche per aprire la neo-controriformistica Via della Conciliazione.

Le parole di architetti e urbanisti accompagnano la gerarchizzazione del territorio, coniugando ambiguamente tecnicismi d’effetto e direttive politiche:

“… Il creare questo volto alle città italiane è una realizzazione alla quale lo Stato Fascista ci conduce.
Il Corporativismo, che è ordine e gerarchia, non può permettere che nel quadro completo di vita nazionale ... le città possano decidere, libere arbitre della propria vita, direttive indipendenti e molte volte in antitesi con le necessità della Nazione.
... Per questo lo Stato organizzerà corporativamente l’urbanistica così che i singoli piani regolatori siano emanazione di un piano regolatore della nazione. Quando questa avrà predisposto il quadro completo delle proprie necessità politiche ed economiche e avrà distribuito i compiti alle attività della campagna e delle città, allora finalmente queste saranno in grado di affrontare con piena responsabilità e risolvere i propri problemi interni.
Solo così potranno essere combattuti e vinti i due grandi mali delle città, l’inurbamento e la vita nei quartieri malsani. Il ristabilire l’equilibrio dell’immigrazione interna con la ruralizzazione e il risanamento morale e igienico, sono argomenti di grande attualità e problemi che urge risolvere col più grande senso realistico ...”.

Negli anni Trenta Edoardo Persico, nel momento in cui le polemiche sulle scelte architettoniche del regime sono più intense, concepisce il ritorno alle origini futuriste della contemporaneità come ripresa di una creatività opposta alle percezioni abitudinarie della piccola borghesia.
Nel suo bilancio della situazione dell’architettura italiana alla metà degli anni Trenta, il critico napoletano osserva che lo slancio del “romanticismo democratico del primo futurismo” si era forgiato uno sguardo nella tradizione lirica dei poemi sulle “città tentacolari”; e i progetti di Sant’Elia hanno, nell’interpretazione di Persico, lo stesso rigore puritano dell’edificio industriale, della fabbrica. Ma, rinnegando questa premessa d’avanguardia, fondamentale pur nelle sue contraddizioni, gli architetti italiani hanno preferito accontentarsi di un patriottismo di facciata, in linea con i gusti del regime.
La deriva mussoliniana nella percezione e nella definizione di un destino eterno riservato alla capitale del fascismo si esaspera nella seconda metà degli anni Trenta, dopo la conquista dell’Etiopia, generando una mitografia imperiale incapace di reggere alla dialettica del divenire. Sarà l’ineluttabile modernità della Seconda guerra mondiale, col trionfo di complessi militar-industriali di spietata complessità, ad annientare il mito arcaico-romano-rurale di una forza bellica ed economica basata sulle cifre di una natalità in crescita.
Prodotto di un progetto anti-urbano, anti-moderno, anti-socialista, le dichiarazioni e le scelte di Mussolini conducono necessariamente alla “soluzione finale”: l’evacuazione delle città italiane durante la Seconda guerra mondiale. Inscritto nella composita logica fascista, tale esito è riproposto come essenziale in un discorso del 1942:

“Cominciate a disperdervi per le nostre belle campagne: bisogna sfollare le città, soprattutto dalle donne e dai bambini. Tutti coloro che possono sistemarsi lontani dai centri urbani e industriali hanno il dovere di farlo, poi bisogna organizzare gli esodi semidefinitivi o serali, in modo che nella città, di notte, restino soltanto i combattenti, cioè coloro che hanno l’obbligo civico e morale di rimanervi”.

La riduzione delle metropoli al rango di trincee per militari e combattenti implica l’annullamento dell’idea stessa di città e la sua sostituzione col concetto di “cittadella” fortificata. Le tensioni e le ambiguità che avevano caratterizzato gli anni del regime fascista si sciolgono tragicamente, i contrastati dibattiti politico-intellettuali sul nuovo volto delle città del regime, sulla “necessaria” valenza “imperiale” degli edifici, dei quartieri e dei centri urbani sorti per iniziativa dello Stato trovano lo sbocco più drammatico, ma non meno logico, nella partecipazione al conflitto mondiale.


Paru dans "Studi e ricerche di storia contemporanea", n. 63, giugno 2005

Pour les notes de cet essai, cf. la Revue d’Histoire citée

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