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LES MEMOIRES

Transactions Culturelles Electroniques/Imprimées




Tosi, Orto in Liguria, 1926

Huile sur toile, 70 x 80 cm
Collection privée





Ettore Janulardo

Calvino: il Sentiero dell’impegno


Prendere di striscio la stagione resistenziale per colpire nel segno; vedere lacerti di mondo attraverso l’invenzione di un bambino: testimoniare. Il sentiero dei nidi di ragno viene pubblicato nell’ottobre del 1947, ma si vuol qui riflettere sull’edizione del 1964, riveduta e corretta, e sulla Prefazione del giugno di quell’anno.
Lontano dalle pagine “gappiste” del Vittorini di Uomini e no, e agli antipodi della geometria sperimentale di Fenoglio – al cui impasto generazionale e linguistico si dedica un omaggio alla fine della Prefazione citata (“Il libro che la nostra generazione voleva fare, adesso c'è, e il nostro lavoro ha un coronamento e un senso, e solo ora, grazie a Fenoglio, possiamo dire che una stagione è compiuta, solo ora siamo certi che è veramente esistita: la stagione che va dal Sentiero dei nidi di ragno a Una questione privata”: I. Calvino, Prefazione 1964, p. XXIII, a Il sentiero dei nidi di ragno, 1947, cit. dall’ed. Mondadori, Milano 1993) – il primo romanzo di un Calvino ventitreenne decontestualizza e priva di aura mitica la scena della lotta partigiana, cui sembrano aderire personaggi grotteschi e imperfetti, sbandata divisione di combattenti raffigurati attraverso gli occhi di un ragazzino in un clima sospeso tra favola e impegno. Così nella prima pagina:

“Basta un grido di Pin, un grido per incominciare una canzone, a naso all’aria sulla soglia della bottega, o un grido cacciato prima che la mano di Pietromagro il ciabattino gli sia scesa tra capo e collo per picchiarlo, perché dai davanzali nasca un’eco di richiami e d’insulti”
(I. Calvino, Il sentiero dei nidi di ragno, 1947, cit., p. 3).

Se alla lotta politica si può arrivare anche per caso, o per dispetto o capriccio, non si dimentica che lo sfondo dei carrugi è piano inclinato lungo il quale scivola la Storia, fatta di debolezze e violenze, di certezze e viltà:

“Poi ci sono gli orti e le immondizie e le case: e arrivando lì Pin sente delle voci non italiane che parlano. C’è il coprifuoco ma lui spesso gira lo stesso di notte perché è un bambino e le pattuglie non gli dicono niente”.
(Ibid., p. 26).

Corrispettivo dell’avanguardista chiamato a una precaria opera di assistenza agli sfollati nel racconto L’entrata in guerra – diviso tra l’imbarazzo della gerarchia e il desiderio di rendersi utile –, Pin s’improvvisa protagonista di vicende che non può comprendere. In un romanzo caratterizzato dalla discontinuità stilistica e da personaggi ambigui o poco verosimili - più maschere e “tipi” che entità vive -, il paese e i paesaggi si sfrangiano nella narrazione calviniana, che sublima spazi e tensioni e battaglie, mentre la nettezza classificatoria delle definizioni infantili riporta alla luce gerarchie di violenza:

“I tedeschi sono peggio delle guardie municipali. Con le guardie, se non altro, ci si poteva mettere a scherzare, dire: - Se mi lasciate libero vi faccio andare a letto gratis con mia sorella.
Invece i tedeschi non capiscono quello che si dice, i fascisti sono gente sconosciuta, gente che non sa nemmeno chi è la sorella di Pin. Sono due razze speciali: quanto i tedeschi sono rossicci, carnosi, imberbi, tanto i fascisti sono neri, ossuti, con le facce bluastre e i baffi da topo”
(Ibid., p. 27).

Se Pavese aveva evidenziato “un sapore ariostesco” nel libro: “Ma l’Ariosto dei nostri tempi si chiama Stevenson, Kipling, Dickens, Nievo, e si traveste volentieri da ragazzo” (C. Pavese, “Il sentiero dei nidi di ragno”, in “L’Unità”, ed. romana, 26 ottobre 1947, ora in C. Pavese, La letteratura americana e altri saggi, Einaudi, Torino 1962), preme qui ricordare quest'altra sua osservazione:

“Diremo allora che l’astuzia di Calvino, scoiattolo della penna, è stata questa, di arrampicarsi sulle piante, più per gioco che per paura, e osservare la vita partigiana come una favola di bosco, clamorosa, variopinta, ‘diversa’”.
(Ivi).

Si coglie quindi, insieme all’aura favolistico-letteraria della vicenda raccontata, una puntuale anticipazione del destino calviniano di guardar la realtà dal basso – come nella regressione dello sguardo e dello sboccato eloquio di Pin – o dall’alto, da alberi su cui si sale ancora per capriccio e a cui si resterà fedeli per assunta scelta di vita, come avverrà ne Il barone rampante.
La luminosa profezia pavesiana s’invera per Calvino nel 1957. E’ lo stesso anno della pubblicazione, sul fascicolo XX di “Botteghe Oscure”, de La speculazione edilizia: la favola del Barone come antidoto regressivo – o neo-anarchico – alla costruzione seriale e speculativa, l’inconsistenza al di fuori della letteratura de Le città invisibili come protesta “politica”, a sottolineare anche nel prosieguo della sua opera la trama dell’impegno attraverso la modalità della finzione.
Incrociando le osservazioni e sperimentazioni adolescenziali con il filtro poetico della visione montaliana: “Montale [...] è stato il mio poeta e continua ad esserlo [...] Poi sono ligure, quindi ho imparato a leggere il mio paesaggio anche attraverso i libri di Montale” (Italo Calvino, Intervista su “Mondoperaio”, XXXII, 6, giugno 1979, cit. da Prefazione 1964, p. XXXI), il racconto di Calvino coglie, nel delineare lo spazio narrativo de Il sentiero, la presenza di una dimensione “dialettale” e popolare sanremese – quella dei carrugi e dei sentieri – da contrapporre alla tipologia internazionale della vacanza in villa, prima dell’ulteriore trasformazione “ideologica” dell’orizzonte ligure:

“L’estate in cui cominciavo a prender gusto alla giovinezza era il 1938: finì con Chamberlain e Hitler e Mussolini a Monaco. La ‘belle époque’ della Riviera era finita [...] Con la guerra, San Remo cessò d’essere quel punto d’incontro cosmopolita che era da un secolo (lo cessò per sempre; nel dopoguerra divenne un pezzo di periferia milan-torinese) e ritornarono in primo piano le sue caratteristiche di vecchia cittadina ligure. Fu, insensibilmente, anche un cambiamento d'orizzonti”
(I. Calvino, Risposta al questionario de “Il paradosso”, V, 23-24, settembre-dicembre 1960, cit. da Prefazione 1964, p. XXXI).

La recensione di Pavese fa riflettere sulle “congiunzioni” da evidenziare nel romanzo del giovane Calvino: apologo favolistico, rivisitazione della propria esperienza di lotta partigiana attraverso l’elaborazione di una falsa regressione, strumento di percezione della realtà come luogo della visione – fondale su cui stagliare o, più spesso, da cui ritagliare figurine –, macchina e meccanismo del tempo attraverso cui muoversi. Pin non è dunque lontano dai protagonisti de I nostri antenati e il suo casuale confluire nella vicenda resistenziale è liberazione – più che riflesso autobiografico –, nonché prefigurazione di una visione razionalistica della Storia quale esprimerà Calvino nel settecentismo alla Candide de Il barone rampante.

Sotto il manto dell’inverosimiglianza e della veloce trasfigurazione di vicende personali e collettive, ricompare la Storia come spazio e tempo delle scelte, sia nel dipanarsi polisemico della narrazione sia nella compattezza dell’analisi politica, non scevra di richiami favolistico-letterari.
Isolata anche nel tono dal resto del romanzo, l’allocuzione ideologica si concentra nel capitolo IX, con le riflessioni del commissario Kim. Centrale deuteragonista del romanzo, “doppio” di Pin e altra voce dell’isolamento provato dal giovane Calvino, sguardo intellettuale ancora estraneo al dispiegarsi continuo dei fatti sul terreno – come poi avviene nell’opera del narratore sanremese –, questa figura non può non ricordare l’omonimo romanzo di Kipling e il “primo vero piacere della lettura d'un vero libro” provato da Calvino, i Libri della Giungla, tanto da farsi citazione palese del giovane anglo-indiano nel turbamento della notte prima della battaglia:

“Abbiamo ancora la testa piena di miracoli e di magie, pensa Kim. Ogni tanto gli sembra di camminare in un mondo di simboli, come il piccolo Kim in mezzo all’India, nel libro di Kipling tante volte riletto da ragazzo”
(I. Calvino, Il sentiero dei nidi di ragno, 1947, cit., p. 116).

“Composito” e “spurio”, il romanzo di Calvino, nelle parole dello stesso autore, ma tanto più significativo poiché risulta oggi problematico e periclitante ciò che egli riteneva socialmente acquisito nella Prefazione del 1964, tanto da potersene distaccare in chiave di rilettura critica. Gli sembrava “ormai lontano” il “senso di questa polemica” sulla “rispettabilità” della Resistenza, che era stata una delle componenti dialettiche insite nel romanzo:

“Direi che volevo combattere contemporaneamente su due fronti, lanciare una sfida ai detrattori della Resistenza e nello stesso tempo ai sacerdoti d’una Resistenza agiografica ed edulcorata”
(I. Calvino, Prefazione 1964, p. XIII).

Ecco allora, dal romanzo, pagine che ritrovano un'attualità che credevamo smarrita, da riproporre e riscoprire contro revisionismi che nulla hanno oggi della scientificità storica, mostrando solo il volto della tracotanza. Il senso della Storia si evidenzia così per Kim:

“Ferriera mugola nella barba:
- Quindi, lo spirito dei nostri... e quello della brigata nera... la stessa cosa?...
- La stessa cosa [...]; - la stessa cosa ma tutto il contrario. Perché qui si è nel giusto, là nello sbagliato. Qua si risolve qualcosa, là ci si ribadisce la catena. [...] C’è che noi, nella storia, siamo dalla parte del riscatto, loro dall’altra. Da noi, niente va perduto, nessun gesto, nessuno sparo [...] L’altra è la parte dei gesti perduti, degli inutili furori, perduti e inutili anche se vincessero, perché non fanno storia, non servono a liberare ma a ripetere e a perpetuare quel furore e quell’odio, finché dopo altri venti o cento o mille anni si tornerebbe così, noi e loro, a combattere con lo stesso odio anonimo negli occhi e pur sempre, forse senza saperlo, noi per redimercene, loro per restarne schiavi. Questo è il significato della lotta, il significato vero, totale, al di là dei vari significati ufficiali”
(I. Calvino, Il sentiero dei nidi di ragno, 1947, cit., p. 115).

Lettura dei tempi, e delle scelte esistenziali, ribadita dall’autore anni dopo, spiegando lo spirito della lotta partigiana:

“ ... una attitudine a superare i pericoli e le difficoltà di slancio, un misto di fierezza guerriera e autoironia sulla stessa propria fierezza guerriera, di senso di incarnare la vera autorità e di autoironia sulla situazione in cui ci si trovava a incarnarla [...] A distanza di tanti anni, devo dire che questo spirito, che permise ai partigiani di fare le cose meravigliose che fecero, resta ancor oggi, per muoversi nella contrastata realtà del mondo, un atteggiamento umano senza pari”
(I. Calvino, Risposta all’inchiesta La generazione degli anni difficili, Laterza, Bari 1962, cit. da Prefazione 1964,
p. XXXIII).

Abbozzate figure di paese o di entroterra ligure, duplicità e voluta ambiguità dello sguardo narrante, assenza di manicheismo – i percorsi personali dei partigiani non sono necessariamente migliori e più coerenti di quelli dei nazi-fascisti – rendono il romanzo un’entità picaresca nella letteratura resistenziale, matrice aperta dell’opera calviniana.
Ma il libro testimonia innanzitutto una posizione storica e politica. Non vi è traccia di obbligo, per i “resistenti”, di essere ontologicamente diversi e migliori degli avversari contro cui si combatte, non si cede al ricatto morale in base al quale ci si rivolta solo se si è incorrotti portatori di una umanità intrinsecamente superiore. Kim, a cui il libro è dedicato, e l’autore, nella Prefazione del 1964, ricordano che resistere è una scelta politica, un’operazione tecnica e un contributo umano, indipendentemente dalle miserie del singolo. Così come in un racconto di poco anteriore, La stessa cosa del sangue, Calvino ripercorre la propria vicenda familiare – l’impegno partigiano con il fratello minore Floriano e la detenzione dei genitori da parte dei tedeschi – con parole inequivocabili:

“Ma ora i due fratelli avevano una cosa in comune … La lotta, l’odio per i fascisti non erano più come prima, per il maggiore una cosa imparata sui libri, ritrovata come per caso nella vita, per il minore una bravata, un girare per le mulattiere carico di bombe a spaventare le ragazze, erano ormai la stessa cosa del sangue, una cosa profonda in loro come il senso della madre, una cosa decisa una volta per tutte, che li avrebbe accompagnati per la vita”
(I. Calvino, La stessa cosa del sangue, cit. dalla raccolta Ultimo viene il corvo, Einaudi, Torino 1949, p. 85).



Paru dans "Studi e ricerche di storia contemporanea", n. 62, dicembre 2004

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