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LES MEMOIRES

Transactions Culturelles Electroniques/Imprimées



Florence, Palazzo Rucellai

Collection particulière





Ettore Janulardo

Tra pubblico e privato: l’architettura della famiglia nei Libri dell’Alberti


I Libri della famiglia di Leon Battista Alberti (Genova, 1404–Roma, 1472) rappresentano il monumento memoriale al ritorno nella città di origine – il bando è revocato nel 1428 – della potente casata fiorentina, allontanata dalla città per motivi politici negli ultimi anni del ‘300.
Avvalendosi anche di una studiata distribuzione dei “ruoli” all’interno del testo tra i diversi interlocutori, nei quattro libri del suo trattato il costruttore-umanista si diletta di celebrare una triplice immagine della città toscana. S’intersecano e s’inverano di luce reciproca la Firenze dei primi decenni del Quattrocento: cantiere della coeva “modernità” architettonica umanistico-rinascimentale, ove Brunelleschi lavora alla Cupola di Santa Maria del Fiore dal 1420; la Firenze del passato: quella della celebrata morigeratezza e dell’evocazione della “nostra famiglia Alberta”, iterata locuzione che nel trattato è rassicurante e celebrativa; e infine la città albertiana dell’avvenire, quella nella quale Leon Battista si accinge a introdurre segni e tracce del suo raffinato umanesimo: edicole ed emblemi, ordini e lesene, trabeazioni e partiture.
Ma l’operazione trattatistica che l’Alberti compie adempie anche alla funzione d’inserire il privato individuale dell’artista nella dimensione, necessariamente pubblica, della storia e della vita di un gruppo e di una comunità; il piano trattatistico – e non memoriale, sebbene in rapporti di citazione e d’interdipendenza con quest’ultimo – corrisponde cioè all’introiezione della dimensione familiare come emblema della legittimazione di cui fu beneficiario ad opera del padre Lorenzo, dopo il suo concepimento al di fuori del matrimonio; e tale idealizzata visione della famiglia è poi chiamata ad espandersi – nella sequenza del trattato – in un’ottica pubblica ma selettiva, sociale ma consortile, curiosa del nuovo ma intimamente tradizionalista.

Redatti a Roma, ove Leon Battista è abbreviatore apostolico dal 1432, i primi tre libri del trattato risalgono agli anni tra il 1433 e il 1434, mentre il quarto libro è composto a Firenze intorno al 1440. La struttura dialogica del testo si fonda sui personaggi fondamentali di Giannozzo e Adovardo, di Lionardo e Battista. Equilibrati e nostalgici, i primi due interlocutori testimoniano di una percezione antica del mondo, fondata sulla tradizione e sull’appropriato ricorso alle humanae litterae; gli altri due protagonisti rappresentano invece una visione nuova, destinata ad aprirsi a diverse esperienze: intervenendo con pertinenza e rispetto, Battista corrisponde ad un architetto in età giovanile, che si mostra desideroso di apprendere con la mediazione degli adulti; Lionardo è infine la proiezione di un Leon Battista ormai maturo, consapevole delle proprie capacità organizzative e “ricostruttive” nel mondo.
Prendendo spunto da alcune osservazioni di Ruggiero Romano e Alberto Tenenti, incrociamo il ruolo e le caratteristiche dei quattro interlocutori dei Libri con i concetti, di segno innovativo – o comunque positivo –, che si possono individuare nell’opera dell’Alberti: il concetto di tempo, quello di masserizia, il concetto di onore e quello di virtù.

La costruzione albertiana della famiglia e del suo posto nella città appare fondata su un impianto quadripartito: i quattro dialoganti si confrontano su altrettante tematiche fondamentali, che scandiscono il trattato come se si descrivessero le fondamenta di un edificio, da preservare e da rafforzare, da proteggere nei suoi segreti e da aprire, quando necessario, al mondo esterno. E la capacità albertiana di affabulare l’architettura – che diviene monumentale nella dimensione concettuale e a-tipografica del De re aedificatoria –, qui già definisce ad alto livello i tempi e gli spazi della famiglia, l’educazione dei figli e la convivenza coniugale, la novità e la tradizione, in una sequenza non solo teorico-discorsiva ma potenzialmente costruttiva. Improntato a una salda ottica storicistica, il discorso teorico è in grado d’interfacciarsi – attraverso il ricordo e l’esperienza – con l’edificio abitato dalla famiglia come a definirne piani e strutture, determinando snodi tra privato e pubblico, tra dimora e ufficio, nonché, come si vedrà in seguito, tra privato accessibile e privato individualmente sacralizzato. Sull’intelaiatura del trattato leggiamo così i piani di un edificio, che può animarsi di vita familiare e relazionale come il Palazzo del committente Giovanni Rucellai, altro illustre esponente dell’alternarsi delle fortune in Firenze e del convertirsi delle ricchezze in nuove costruzioni. Come se ci si muovesse tra queste architetture, anni dopo realizzate su disegno dell’Alberti, avviciniamo i volumi del piano teorico e quelli della realizzazione concreta:

- il primo libro del trattato, dedicato all’educazione dei figli, corrisponde a un piano del Palazzo Rucellai
e, nello scandirsi delle generazioni, evidenzia aspetti del concetto di tempo;
- il secondo libro, consacrato al matrimonio, può rappresentarsi negli spazi del piano nobile e all’insegna del concetto di virtù;
- il terzo, concentrato sull’economia domestica, pare corrispondere a un altro piano del palazzo, esemplificando il concetto di masserizia;
- il quarto libro, dedicato all’amicizia e alla vita di relazione, tende a evidenziare il concetto di onore: il suo corrispettivo architettonico – che è al tempo stesso punto di vista privilegiato per osservare il palazzo nella peculiarità della sua collocazione urbana – è la Loggia Rucellai, di più tardo inizio dei lavori così come l’ultimo volume del trattato è successivo di alcuni anni rispetto ai primi libri.

Con un andamento che sembra anticipare l’afflato machiavelliano del XXV capitolo del Principe, il Prologo albertiano si dispiega in una proposizione positiva del rapporto tra fortuna e virtù, con esempi tratti dalla storia antica e orientati a definire le fattive potenzialità dell’umano calato nella storia, sino all’apice rappresentato dalla romanità: “Quello imperio maraviglioso sanza termini, quel dominio di tutte le genti con nostre latine forze acquistato, con nostra industria ottenuto, con nostre armi latine amplificato, dirass’egli ci fusse largito dalla fortuna?”. Il discorso di Leon Battista si apre così a suggestioni alte, apparentemente lontane dalla tematica impostata: in misura simmetrica, nel Prologo del De re aedificatoria, si coglierà la valenza antropomorfa della costruzione architettonica: “Noi invero abbiamo considerato essere lo edificio un certo corpo il quale consta, come tutti gli altri corpi, di forma e di materia. Delle quali due, l’una è prodotta dallo ingegno, l’altra è presa dalla natura. All’una si provvede con la mente e col pensiero, a quest’altra con apparecchiamento e sceglimento”.
Certo diverso da quello che sarà il piano politico di Machiavelli – il cui urgente impegno ideologico è lontano dall’umanesimo potenzialmente cortigiano di Leon Battista –, il procedere albertiano anticipa le scelte del Segretario della Seconda Cancelleria della Repubblica fiorentina nella visione unitaria del fattore storico, là ove la prospettiva – strumento e non fine, studio geo-cartografico che diviene forma mentis dell’uomo nello spazio – si fa piano di lettura e d’interpretazione del mondo, come a delineare e a indirizzare le ricostruzioni del reale presenti nella Dedica del Principe: “cosí come coloro che disegnano e’ paesi si pongano bassi nel piano a considerare la natura de’ monti e de’ luoghi alti, e per considerare quella de’ bassi si pongano alto sopra monti, similmente, a conoscere bene la natura de’ populi, bisogna essere principe, et a conoscere bene quella de’ principi, bisogna essere populare”.

Nucleo generatore di una teoretica che attinge all’etica del fare di Brunelleschi, la visione albertiana trae alimento anche dalla tradizione dei libri di mercanti fiorentini, riattualizzati attraverso rimembranze personali e capacità di legare “geneticamente” storie di famiglia e geometrico-simboliche costruzioni dello spazio nella città: come la trama della facciata di Palazzo Rucellai riveste, trasforma e connota i pregressi costrutti architettonici facendo di essi unità di segni nel tutto urbano.
Anche questa tradizione di ricordi familiari troverà seguito nel Cinquecento mutando di segno nella memorialistica gnomica di Guicciardini, estensore di un anti-trattato che – riprendendo la metafora architettonico-urbanistica – trasforma il compatto edificio albertiano in una serie di insulae debolmente comunicanti, ove la città perde la sua centralità ed è chiamata a subire l’aleatorietà della storia: ed essa è tanto più drammatica quanto più si è incapaci di dar forma e prospettiva – cioè principio regolatore – allo spazio e misura, ovvero ritmo costruttivo, al tempo.
Del tutto al di qua del frammentismo cinquecentesco gestito con “rispetto” da Guicciardini, il messaggio di Leon Battista corona la stagione dell’umanesimo civile, fornendo apporti essenziali – nel privato della famiglia e nel pubblico della costruzione urbana – all’esaltazione dell’operosità umana rivendicata da Giannozzo Manetti nel De dignitate et excellentia hominis: “Nostre infatti, e cioè umane perché fatte dagli uomini, sono tutte le cose che si vedono, tutte le case, i villaggi, le città, infine tutte le costruzioni della terra, che sono tante e tali, che per la loro grande eccellenza dovrebbero a buon diritto essere ritenute opere piuttosto di angeli che di uomini. Sono nostre le pitture, nostre le sculture, le arti, le scienze; nostra la sapienza […] Nostre sono infine […] tutte le invenzioni, nostra opera tutti i generi delle varie lingue e delle varie lettere, i cui usi necessari quanto più profondamente andiamo ripensando, da tanta maggiore ammirazione e stupore noi siamo trascinati[…]”.

L’apporto albertiano sembra dunque stagliarsi nell’orizzonte sapiente e fiducioso, raccontato e architettato, ove la stagione civile fiorentina si coniuga con la definizione dello spazio che da architettonico tende a divenire urbano. E guida tecnica del costruir per la famiglia – ovvero del costruire la famiglia – sarà la misura geometrica ma anche il rispetto della masserizia e il ricordo di esperienze da intridere nella privatezza del quaderno ove registrare entrate e uscite nel commercio, beni di proprietà e nascite di figli. A considerazioni di sapore classico sul rapporto padri-figli – questi ultimi d’altronde evidenziati anche nella loro futura utilità: “E sappino e’ padri ch’e’ figliuoli virtuosi porgono al padre in ogni età molta letizia e molto sussidio, e nella sollecitudine del padre sta la virtú del figliuolo […]” – segue la metafora fondamentale della famiglia-edificio, che ci accompagna nella lettura del trattato: “I buoni, per mansueti, moderati e umani che siano, se non saranno molto nella famiglia solliciti, diligenti, preveduti e faccenti in emendare e reggere la gioventú, sappino che cadendo alcuna parte della famiglia, sarà forza a loro insieme ruinare, e quanto e’ saranno in la famiglia con piú amplitudine, fortuna e grado, tanto sentiranno in sé maggior fracasso. Le priete piú che l’altre in alto murate son quelle che cadendo piú s’infrangono […]”.

Tale visione strutturale della famiglia si abbina, nelle parole di Lionardo-Alberti, a considerazioni di natura estetico-affettiva, purché si ricordi che ogni opera – d’ingegno o di generazione parentale – è anche un investimento a lungo termine: “Veggo da natura quasi ciascuno ama l’opere sue, el pittore e il scrittore, e il poeta; el padre molto piú, stimo, perché piú vi dura richiesta e piú lunga fatica. Tutti cercano l’opere sue piaccino a molti, sieno lodate, stiano quanto sia possibile eterne […]”. Se tale è la portata della posta in gioco, ove a “lunga fatica” dovrebbe corrispondere durata della gioia ricavata, il provvido pater familias non può non registrare il giorno della nascita dei propri figli. Più che anticipatore dell’anagrafe, Lionardo-Alberti è qui custode della tradizione inventariale mercantile, ormai tanto raffinata da costituire essa stessa garanzia dell’accuratezza di chi archivia: “[…] che l’ora, el dí, il mese e l’anno, e anche il luogo si noti, e in sui nostri domestici commentarii e libri secreti si scriva subito che ‘l fanciullo nacque, e serbisi tra le care cose. Questo per molte cagioni, ma non essendovi altra ragione, pur e’ dimostra quanto sia nel padre in ogni cosa diligenza, ché già se si reputa diligenza scrivere il dí, far menzione del sensale per cui mano tu comperasti l’asino, sarà egli manco lodo far memoria del dí che tu diventasti padre, e del dí che a’ figlioli tuoi nacque il fratello? […]”.

La “diligenza” del padre spinge ad annotare perdite e profitti – quindi anche le nascite di eredi – in “libri secreti”. Siamo introdotti a un altro snodo dell’articolazione concettuale albertiana: la casa-famiglia è spazio privato nonché pubblico, di riposo e di rappresentanza, di gestione e di ricevimento dei beni necessari; è casa-palazzo, casa-azienda, tendenzialmente autosufficiente (il nostalgico Giannozzo, nel libro terzo, celebra proprietà tanto fruttifere, “[…] possessioni, che portandovi uno quartuccio di sale ivi si potesse tutto l’anno pascere la famiglia […]), ma al suo interno essa ospita anche nuclei di privato con differenti livelli di accessibilità.
Nella gestione di ciò che potremmo definire un “privato di coppia”, è essenziale il ruolo della moglie, opportunamente “ammaestrata”. Facente funzioni del marito in ciò che le viene delegato, la donna non deve essere all’oscuro di “niuna masserizia”; anche “[…] le cose di pregio, gli arienti, gli arazzi, le veste, le gemme, e dove queste tutte s’avessono ne’ luoghi loro a riposare” sono ad essa mostrate al riparo dell’uscio “serrato” di camera. Giannozzo motiva tale scelta sottolineando il piacere semi-privato dell’ammirare oggetti preziosi nell’intimità della propria camera, promossa a galleria e forziere “dove spessissimo e per mio diletto e per riconoscere le cose io possa solo e con chi mi pare rinchiudermi”.

Ma se la moglie non è esclusa da alcun segreto oggettuale, che resti pur sempre nell’ambito della domestica masserizia, a lei è assolutamente precluso lo spazio dell’annotazione privata e della memoria di famiglia: “Solo e’ libri e le scritture mie e de’ miei passati a me piacque e allora e poi sempre avere in modo rinchiuse che mai la donna le potesse non tanto leggere, ma né vedere. Sempre tenni le scritture non per le maniche de’ vestiri, ma serrate e in suo ordine allogate nel mio studio quasi come cosa sacrata e religiosa, in quale luogo mai diedi licenza alla donna mia né meco né sola v’intrasse, e piú gli comandai, se mai s’abattesse a mia alcuna scrittura, subito me la consegnasse. E per levarli ogni appetito se mai desiderasse vedere o mie scritture o mie secrete faccende, io spesso molto gli biasimava quelle femmine ardite e baldanzose, le quali danno troppo opera in sapere e’ fatti fuori di casa o del marito o degli altri uomini […]”: è con tali consigli, apologhi e ricordi che viene edotta la padrona di casa sui limiti da non oltrepassare.

Attraverso il “ricordo” di messer Cipriano Alberti – “uomo interissimo e prudentissimo” – si ribadiscono così, al contempo, il ruolo della moglie e la geometria polifunzionale degli spazi domestici. E’ esattamente il definirsi delle proporzioni, sia nei termini di articolazione trattastica sia in quelli di volumetrie da abitare, a determinare il prestigio socio-familiare degli abitanti la dimora signorile e il ruolo intellettuale dell’artista-creatore. Il rifiuto dell’ostentazione costruttiva si fa morigeratezza nell’uomo e richiamo al pudore per la donna, di cui si citano virtù e fattezze in ottica di “utilità” e di discendenza familiare: “Adunque nella sposa prima si cerchi le bellezze dell’animo, cioè costumi e virtú, poi nella persona ci diletti non solo venustà, grazia e vezzi, ma ancora procurisi avere in casa bene complessa moglie a fare figliuoli, ben personata a fargli robusti e grandi”. Se alla consorte si raccomanda – in nome del tempo (nel senso di buon uso di esso, più che nell’accezione vertical-generazionale di nascita ed educazione dei figli), della virtù e dell’onore – di essere “molto piú nelle cose di casa sollecita che in quelle di fuori”, si disegna qui per lei un campo di attività come curatrice dell’economia domestica, ovvero della masserizia nella sua dimensione intra muros, nelle stanze, nei depositi e nella cucina del palazzo. Ed è proprio questo confinare la moglie in spazi responsabilizzanti ma finiti a fare di essa una persona sprovvista di privato; solo il marito, avendo la possibilità e la necessità di muoversi liberamente oltre le architetture di famiglia, è del suo passato memore geloso, in grado di far interagire educazione dei figli e vita di relazione, capace dunque di trasformare il perimetro spaziale della propria esperienza in ricordo, in potenziale storia. Con uno sguardo che pare proiettarsi dalla dimora di famiglia alla piazza, dalla Loggia alla città – senza manifestare indulgenza per le cariche e gli impieghi pubblici – il trattato definisce il luogo della gloria, lo spazio della corretta fama come estensione modulare dell’abitazione: “E affermovi che il buono cittadino amerà la tranquillità, ma non tanto la sua propria, quanto ancora quella degli altri buoni, goderà negli ozii privati, ma non manco in quello degli altri cittadini suoi, desidererà l’unione, quiete, pace e tranquillità della casa sua propria, ma molto piú quella della patria sua e della republica”. E si aggiunge, con tono insolitamente elevato: “Non in mezzo agli ozii privati, ma intra le publiche esperienze nasce la fama”.
Ed è proprio la dimensione pubblica che nel trattato, per converso, dà accesso e diritto al privato nell’accezione albertiana; naturalmente destinati agli uomini, la Loggia e la piazza sono il corrispettivo aperto dei punti chiusi e riservati nella dimora di famiglia nell’esplicita programmaticità di Giannozzo: “Moglie mia, acciò che a questo e agli altri domestici bisogni non manchi le cose, fa in casa come fo io nel resto fuori di casa”. Evitando di definire in modo particolareggiato l’oggetto da tener nascosto, le sue parole illustrano inoltre la finalità anche strumentale e diversiva di molti discorsi fatti tra le mura domestiche, tesi a salvaguardare il privato maschile e la sua valenza specifica: “e io poi questo seco osservava, che mai ragionava se none della masserizia o de’ costumi o de’ figliuoli […] cosí faceva per tôlli via d’entrare meco in ragionamenti d’alcuna mia maggiore e propria cosa. Cosí adunque feci: e’ secreti e le scritture mie sempre tenni occultissime […]”.

Anche quest’ultima dimensione ipersegreta – di un privato specificamente maschile – può avvicinarsi, seguendo la metafora del trattato come costruzione architettonica, ad una creazione albertiana, a sua volta inserita in altro spazio: ci riferiamo al Tempietto del Santo Sepolcro nella Cappella Rucellai in San Pancrazio. Se la Cappella ha definizione interna prossima alle raffigurazioni architettoniche di Piero della Francesca, è il Tempietto a stagliarsi nella sua solida decoratività che si fonde con il piano strutturale, mentre il tracciato geometrico si fa emblema. Segno di sacralità, attraverso le riquadrature, i tondi policromi e il giro absidale il Tempietto mette in luce la trama di un percorso costruito tanto più universale quanto più all’insegna dell’introiezione, come abitazione del divino da giustapporre ai volumi laici del Palazzo di famiglia.

Ed è in questa corrispondenza tra abitazione pubblico-familiare e vita privata, da una parte, tra costruzione del Santo Sepolcro e provvisorietà della morte nell’ottica della Rinascita, dall’altra, che si situa la stagione fiorentina di Leon Battista Alberti, teorico e visionario di un mondo d’idealizzato equilibrio già lontano nel tempo, destinato poi ad essere riassorbito in una concezione monumentale della costruzione,
ove l’oggetto – nelle sue geometrie comunicanti – è forma ideale che esprime visione dello spazio e rivisitazione della storia.


Texte présenté au Colloque "Vita pubblica e vita privata nel Rinascimento", Chianciano-Pienza 2008

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